Giuseppe Gioachino Belli – poeta – (Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863)

Il miglior poeta dialettale di Roma e tra i più grandi d’Italia in questo genere. Trascorsa la giovinezza tra difficoltà economiche, cercò tuttavia sempre di seguire gli studi. Ottenuto il posto di segretario del principe Poniatowski, per il suo carattere forte e ombroso lasciò presto l’impiego a seguito di divergenze con l’aristocratico; e di poi tentò con scarsa fortuna vari mestieri, dai quali non cavò la soluzione dei suoi problemi.

Fu, in ogni caso, nel 1813, tra i fondatori dell’Accademia Tiberina, e ne ebbe un beneficio in punto di prestigio e decoro, cosicché nel 1816 poté unirsi in matrimonio con Maria Conti, ricca vedova, attestandosi peraltro in una condizione di agiatezza che gli consentì di perfezionarsi negli studi, di poter attendere con serenità alla sua attività di verseggiatore; e di viaggiare, inoltre, in lungo e in largo per l’Italia.

Nel 1820 egli compose il primo dei 2279 celebri sonetti dialettali, con i quali – come ebbe a rilevare la critica – “doveva comporre il più bel monumento di poesia satirica”.

Giuseppe Gioachino Belli

La morte della moglie, sopravvenuta nel 1837, fu seguita da dissesti finanziari, che turbarono profondamente il poeta, preoccupato per la sorte del figlio Ciro. In aperto conflitto con la Chiesa, nella quale si impersonava il potere temporale, fu indotto a fare pubblica ammenda delle violente punzecchiature inflitte al governo del Papa. Ciò gli consentì di chiedere e ottenere un impiego governativo, che però lasciò dopo pochi anni “per insofferenza”. Riprese così l’attività di poeta e con la Restaurazione del 1849 ebbe il titolo ambito di “poeta accademico” e la carica di censore teatrale, e in questo ruolo fu osservante e zelante fino alla pedanteria (aveva ad ogni buon conto affidato all’amico mons. Tizzani la sua opera poetica perché la distruggesse, cosa che tuttavia questi per fortuna non fece).

La critica ufficiale ha riconosciuto, nel tempo, che il Belli dialettale non rappresentò affatto una ribellione all’autorità della Chiesa e all’ordinamento sociale dello Stato pontificio: suo intento precipuo era di erigere un monumento alla “plebe di Roma”; ciò che tuttavia fece con un certo distacco; se polemica vi fu nel suo poetare, essa fu in ogni caso rivolta verso certa esteriorità che egli mal sopportava.

Il dialetto romanesco fu l’arma efficace di cui si servì magistralmente per mettere a fuoco (e a nudo) le incongruenze del suo tempo. Se questa risultanza, di certo approssimativa di un’esistenza attiva e al contempo molto riflessiva della persona che del poetare fece – si può affermare – la sua prima natura, ben altre ragioni si potrebbero portare non già in sua difesa – che il Belli non abbisogna certo di difese, tanta è tale è la sua gloria – ma per una maggior comprensione di quella che parve una strana e quasi incongrua personalità, talento indiscusso a parte. In altre parole, se non eccelso (e discusso!) quanto un Monti (che come uomo non potè e non può essere considerato un modello di coerenza) fu certamente uno scontento, un compresso, vuoi dalla vita, che fu costretto a subire quale spirito libero, vuoi per gli “accomodamenti” (ma oggi si direbbe “compromessi”) che fu costretto ad accettare.

Ciò doverosamente premesso, la sua figura si staglia peraltro su di una Roma pedissequa e anonima, e vi troneggia portato a spalle, afflitto tuttavia dalle molte miserie di cui seppe farsi interprete o più spesso testimone non sempre partecipe, né troppo benevolo. Ma era pur sempre, la sua, una voce del popolo.

Servi – è vero – un regime, ma lo fece per vivere; e fu una ricca vedova a trarlo dai suoi guai, ma pure essa trasse vantaggio dalle qualità non “comuni” del suo “nuovo” uomo.

Anche l'Accademia ha la "propria" strada in Roma (zona EUR)

Di massima va’ qui sottolineato – sia pure per sfioramento – che nessuno dei fondatori o “supporter” Tiberini fu uomo di poco conto; va detto in verità che i più seppero essere tutti personalità degne di considerazione e rispetto, e che dal loro valore collettivo uscì onorata l’Accademia. E furono – converrà sottolinearlo, perché lo riconobbero i Prelati allora al Governo, degli innovatori necessari non soltanto alla loro comunità e alla Città di Roma, dal momento che seppero proporre nuovi orizzonti ad una più vasta popolazione inerte e sonnolenta. Anche se talvolta procurarono qualche fastidio, la loro buona fede e la lealtà risultarono sempre assolte agli occhi degli osservatori politici, invero assai attenti e alquanto severi.

E questo è un merito che non è mai venuto meno, anche nell’allargamento successivo degli orizzonti.

Nello Corsieri

L’affetto del Belli per l’Istituzione

Più volte e da più parti è stato messo in dubbio che il Belli fosse realmente tra i fondatori della “Tiberina”, in quanto per la sua produzione uscita pressoché integralmente postuma, meno una cinquantina di “cose pulite” grazie all’occultamento e alla preservazione che ne fece provvidenzialmente l’abate Tizzani, suo sicuro amico, cui l’affidò era considerato una sorta di “anticristo”.

Malevolenza bolsa, codesta, perché l’Accademia Tiberina, sorta nei modi e con le motivazioni di cui si fa cenno a più riprese in questo libro, fu voluta precipuamente dal Belli e dal suo fido Jacopo Ferretti, come acclarato anche da rilevazioni “esterne” relativamente recenti, ma in primo luogo come si rileva tra queste stesse righe, da una composizione del poeta medesimo.

E siccome delle cose bisogna anche sapere il perché che nella fattispecie è poi il nocciolo della questione, o meglio, della decisione converrà precisare che i due intesero reagire allo strapotere napoleonico, allora incombente; e lo fecero soprattutto, per affermare il prevalere dei valori cristiani sul materialismo spinto che pareva voler preludere all’introduzione del più vieto ateismo. Insomma, una decisione ed una scelta “guelfiste” contro una tendenza invero … ghibellina.

Quale “anticristo”, dunque? Diciamo piuttosto che il Belli, come artista era per la libertà di espressione e contro un sistema allora, in realtà, vessatorio, del potere, che molti degli stessi esecutori malsopportavano, ma non volevano ne potevano impedire. Di qui la sua “compressione” e molti di quei rancori che lo videro in serrata contesa “per il noto caratteraccio” con Giove Stato, per i non pochi fulmini.

Ventenne appena, o giù di lì (poiché fu ingegno precoce) venne già preso in considerazione dai sapienti del tempo per le sue doti di improvvisatore e per la buona preparazione culturale. E, giusta, quella della “Tiberina” fu una sentita esperienza giovanile. Anche quando se ne astenne per certe discordie interne, in realtà mai se ne allontanò sotto l’aspetto affettivo. E quando da lontano insorse, lo fece in opposizione ai mediocri valori di certi nuovi “osannati” che egli sapeva di sovrastare per alcune spanne.

Ma in ogni caso queste note tendono a dimostrare come il Belli abbia amato sempre la “sua” Tiberina. Lo legavano ad essa le speranze degli anni belli, con il loro carico di illusioni (e in questo fu indiscutibilmente romantico, contro ogni affermazione contraria di “classicismo” creativo e stilistico).

Perché il Belli nella sua opera, per rilevante parte, pur nell’acceso pessimismo alla Baudelaire o alla Schopenhauer, seppe essere anche, e sinceramente, moralista, certo con innegabile crudezza realistica.

Ma è il realismo – si badi – degli anni maturi e pertanto “smaliziati”: quello delle speranze deluse, irrimediabilmente andate.

Sentite un po’ ora come egli vanta la creazione dell’istituzione, portandola come fatto memorabile:

“Presso in quell’anno in cui dello straniero
Trono e consigli il ciel volle distrutti
Molti da patrio amor fummo condutti
A fondar questo sodalizio altero.”

Ma anche un Belli, fatto maturo e dal piglio scettico e amaro, sopraffatto dalla monotonia del vivere e da non poche delusioni intime, ritrova una vena di buonumore laddove ricorda, come in uno scorcio di sole, l’estro degli anni migliori.

Così, nella tornata dell’Accademia Tiberina del 17 maggio 1860 (a tre anni dalla sua scomparsa) Egli professa, in un’estemporanea declamazione, la sua antica passione per l’amato sodalizio.

È un Belli – si noti – autocritico e scherzoso con se stesso:

“Trascorso è un mezzo secolo oggimai
Dacché fondata fu la Tiberina,
E il so, perché con altri io la fondai,
come sta scritto in carta pirgamina.
Ebben, d’allor non ho taciuto mai,
Ma sempre pronto con la mia cartina,
A un cenno che mi faccia il Presidente
Sorgo e principio a stomacar la gente.
Or da quando la mia squarquoia
Prese a cacciarmi i versi dai polmoni,
Ho ammazzato fin qui di pura noia
Possiam dir quasi due generazioni.”

1791 – Nasce a Roma il 7 settembre, Giuseppe Gioachino Belli figlio di Gaudenzio Belli e Luigia Mazio. È il primogenito di quattro figli. La famiglia di lontana origine marchigiana emigra a Roma nel XVII sec. Il nonno del poeta computista in casa Rospigliosi, avvia una generazione impiegatizia alla quale non si sottrae il poeta.

1792 – Nasce il fratello Carlo.

1798 – Fuga a Napoli con la famiglia, per ragioni politiche, in seguito alla proclamazione della Repubblica dei Francesi, tentativo a cui prende parte un cugino di Gaudenzio Belli, Gennaro Valentini, che verrà fucilato dai francesi. A Roma, intanto, vengono confiscati i beni di famiglia.

1800 – Caduta la Repubblica Romana, a risarcimento dei danni subiti, Pio VII offre a Gaudenzio Belli un incarico ben remunerato a Civitavecchia. Nel marzo del 1800 la famiglia Belli prese alloggio all’ultimo piano di un edificio secentesco della Quarta Strada, corrispondente al n. 30 dell’attuale via Pietro Manzi. Per due anni casa Belli si trasforma in un “salotto mondano”. (Roma, Ing. Salvatore Rebecchini – Fotografia della Casa abitata dalla fam. Belli a Civitavecchia (1800-1802).

1801 – Nasce la sorella Flaminia.

1802 – Un’epidemia di tifo esantematico colpisce Civitavecchia. Il padre Gaudenzio viene contaggiato, muore il 25 marzo. La famiglia Belli torna a Roma. La madre è costretta a fare lavori di cucito per provvedere ai tre figli (il quarto figlio Antonio nascerà da lì a poco e morirà dopo la nascita. Giuseppe Gioachino è studente presso il Collegio Romano.

1803 – La famiglia Belli si stabilisce nell’umile casa di via del Corso 391, vivendo poveramente. Belli conosce Francesco Spada con il quale stringe un’amicizia che durerà fino alla morte del poeta.

1805 – Esordio del poeta quattordicenne con delle ottave e un sonetto in lingua. Inizia l’apprendistato del Belli, tra modelli arcadici e autori coevi. Tra il 1805 ed il 1816, il Belli realizza 103 poesie in lingua, di cui 72 sonetti.

1806 – La madre sposa in seconde nozze l’agente di borsa Michele Mitterpoch.

1807 – Muore la madre. Il Belli viene affidato allo zio Vincenzo, e poi, per la gelosia della moglie di lui, alla vedova sorella di Gaudenzio. Il poeta interrompe gli studi ed inizia a lavorare dapprima presso casa Rospigliosi e poi presso la computisteria degli spogli ecclesiastici. Inizia il periodo “scapigliato” del Belli. Muore il fratello Carlo.

1810 – Collocato ben presto a riposo in seguito all’annessione delle province all’Impero francese, studia l’inglese e il francese (lingua in cui scriverà correttamente) e si interessa di fisica e di chimica. L’apprendimento delle lingue gli permetterà di leggere e tradurre testi che tanta parte avranno nella sua formazione intellettuale (tra gli altri Voltaire e Rousseau).

1812 – Trova lavoro come segretario presso il principe Stanislao Poniatowsky, nipote del re di Polonia. Francesco Spada racconta «lo ammise nella sua corte con titolo e con ufficio di segretario». Entra nell’Accademia degli Elleni; prosegue la produzione poetica in lingua.

1813 – A seguito di contrasti lascia l’impiego presso la casa del principe polacco. Si guadagna da vivere come copista e dando lezioni private di Italiano, geografia ed aritmetica. L’imminente caduta di Napoleone crea dissensi in seno all’Accademia Ellenica filofrancese (di cui il Belli era membro da due anni). In seguito alla scissione dell’Accademia Ellenica, il 9 aprile il Belli insieme ad altri 25 privati cittadini residenti nell’URBE, fondano l’Accademia Tiberina, il cui scopo principale è quello di promuovere studi storici su Roma. Qui il poeta fa frequenti letture dei suoi lunghi componimenti poetici.

1814 – Viene stampata la prima lirica del Belli.

1816 – Il 12 settembre sposa Maria Conti, vedova del conte Giulio Pichi. Maria Conti era nata il 5 ottobre 1778, unica erede d’una ricca famiglia originaria di Terni. Il Belli che l’aveva conosciuta nelle accademie romane, rifiutò dapprima il matrimonio proposto da lei stessa; poi, allorché ebbe un impiego nell’Ufficio del Bollo e Registro diretto dal conte Vincenzo Pianciani, amico di Mariuccia, acconsentì alle nozze, che ebbero luogo in S. Maria in Via, in tutta segretezza, perché ambedue temevano l’opposizione da parte dei genitori dela sposa. Ottenuto il perdono, andarono ad abitare nella casa dei genitori di Mariuccia, al secondo piano di palazzo Poli. Il matrimonio porta una discreta agiatezza economica che permette al Belli di dedicarsi con tranquillità all’attività poetica.

1817 – Nasce la primogenita Felice Luisa. In questo periodo il poeta inizia i suoi viaggi per l’Italia.

1819 – Muore la figlia Felice Luisa. Il 4 dicembre 1819 manda una lettera al conte G. Perticari, relativa al conio delle medaglie dell’Accademia Tiberina. «Le mando una mostra a penna del conio rovescio, che si dovrà lavorare, onde Ella la esamini, e mi faccia sapere, rimandandomela, se così potrà riuscir di suo gusto».

1822 – Conosce la marchesina Vincenza Roberti (Cencia) alla quale si lega d’affettuosa amicizia, testimoniata da un fitto carteggio e da un canzoniere amoroso di stampo petrarchesco.

1824 – Il 12 aprile nasce il figlio Ciro. Il Belli continua i suoi viaggi per l’Italia. A Firenze conosce Pietro Giordani e frequenta il gabinetto Vieusseux.

1827 – Primo viaggio a Milano dove avrà modo di accostare da vicino le poesie di Carlo Porta che influenzerà molto la sua ispirazione. La sorella Flaminia viene ordinata suora nell’ordine delle Perpetue Adoratrici della Santissima Eucarestia.

1828 – Secondo viaggio a Milano. Si dimette dall’Accademia Tiberina.

1829 – Terzo viaggio a Milano. Nel giornale di viaggio del 1829 vi sono alcuni appunti intitolati Storia del mio passaporto, rilasciato il 4.9.1828. Il 7 agosto aveva ottenuto sborsando trenta baiocchi il visto della polizia di Roma sopra il passaporto dell’anno prima, il quale gli era costato uno scudo e mezzo. Con altri 40 baiocchi, «compresa la buona mano alla serva», ottenne il visto dal console sardo; e gratis dal ministro austriaco, ma dovette dare 30 baiocchi al portiere che gli «affettò il premuroso». A Firenze, 10 baiocchi al Buon Governo e 15 al Console pontificio. Un altro scudo «almeno» se ne andò in altri visti e mance prima dell’arrivo a Genova. E la dispendiosa odissea continua per un pezzo: è quindi naturale che il B. in un sonetto appaiasse i passaporti alle ghijottine e alle galerre. (Forlì, Biblioteca A. Saffi – Coll. Piancastelli – Passaporto rilasciato a G.G. Belli, 4.9.1828).

1830 – Inizia la creazione del grande poema di Roma che prosegue senza interruzione fino al 1836. Nel novembre muore Pio VIII; gli succede Gregorio XVI. Il quindicennio del suo papato, non certo all’insegna di illuminato progresso, rappresenta lo sfondo prevalente dei Sonetti belliani. Nei suoi confronti la satira del poeta sarà sempre sferzante.

1831 – La produzione poetica dialettale diventa prevalente. Compone solo due poesie in lingua contro i 216 sonetti romaneschi.

1832 – Compone una poesia in lingua contro i 391 sonetti romaneschi.

1834 – L’equivoco frequente tra il suo nome e cognome e quelli di omonimi aveva sempre rappresentato per il Belli una vera e propria ossessione. Il 23 settembre 1834 scrive all’amico Raffaele Bertinelli spiegando la ragione per cui al primo nome, Giuseppe, aveva aggiunto il secondo, Gioachino: «La vostra lettera del 15, perché mancante del mio secondo nome dell’indirizzo, ha passato quella sorte alla quale io volli ovviare allorché assunsi quel distintivo che mi individualizzasse tra la folla dei Giuseppi Belli che corrono il mondo. E’ capitata nelle mani di un Giuseppe Belli nativo (credo) di Città di Castello, e finalmente l’ho io avuta jeri, aperta per colpa dello equivoco e non dell’uomo ». (Roma, Biblioteca Vittorio Emanuele II (Vitt. Em. Aut. 92,8 – Fede di battesimo di Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli in data 25 gennaio 1849 – basilica di S. Lorenzo in Damaso).

1836 – La produzione dialettale scende ad 86 sonetti contro 17 poesie in lingua.

1837 – Mentre si trova a Perugia, presso il figlio Ciro lì stabilitosi per motivi di studio, apprende la notizia delle pessime condizioni di salute della moglie. In tutta fretta torna a Roma ma non riesce a vederla viva. Inizia per il Belli un periodo triste di cui è l’inizio l’inaridirsi della vena poetica. L’epidemia di colera lo induce a fare testamento in cui dispone che i Sonetti si dovranno ardere.

1838 – Nel frattempo ha stretto amicizia con monsignor Vincenzo Tizzani, canonico lateranense, che lo convince a rientrare all’Accademia Tiberina. Il Tizzani è un uomo intelligente, ispirato da sentimenti patriottici. A lui va il merito di averci conservato le carte belliane non attuando il pur contraddittorio desiderio del Belli di distruggerle. In questo periodo si verifica anche un accostamento del Belli alla chiesa.

1839 – Pubblica una raccolta di versi in lingua Versi di G. G. Belli romano, promossa dal Tizzani. Consegna all’amico Tizzani i manoscritti di duemila sonetti dialettali.

1840 – Diventa segretario dell’Accademia Tiberina. Al Museo di Roma sono conservate alcune lettere manoscritte: (13929) – Lettera del card. Lambruschini fatta da G.G. Belli in qualità di Segretario dell’Accademia Tiberina. Il foglio reca il timbro dell’Accademia Tiberina e la data 19 dicembre 1840; (13930) – Lettera datata 21 dicembre 1840 di G.G. Belli a Mons. Carlo Gazola eletto Presidente dell’Accademia Tiberina per l’anno 1841. La lettera è scritta dal Belli in qualità di Segretario dell’Accademia e firmata da A. Savorelli in qualità di Presidente in carica.

1841 – L’amico Tizzani gli restituisce i manoscritti. Riottiene un impiego pubblico. Riprende la produzione dialettale. Muore a Torino la sorella Flaminia.

1843 – Notevole ripresa della musa romanesca che coincide con le condizioni di spirito tornate tranquille del poeta.

1845 – Chiede ed ottiene il pensionamento per motivi di salute.

1847 – La proclamazione della nuova Repubblica Romana lo impaurisce, memore certamente dei tragici avvenimenti dell’infanzia. Interrompe la produzione dialettale.

1849 – Il figlio Ciro si sposa con Cristina Ferretti. In occasione del matrimonio compone l’ultimo sonetto dialettale Sora Crestina mia, dedicato alla nuora. Il 13 maggio aggiunge una postilla al testamento: in essa raccomanda al figlio di distruggere dopo la sua morte i “versi in vernacolo e stile romanesco affinché non sian dal mondo mai conosciuti siccome sparsi in massime, pensieri e parole riprovevoli”. (Pare temesse di nuocere alla carriera del figlio, laureato brillantemente in giurisprudenza.) Egli non vedrà mai pubblicati i Sonetti, fatta eccezione per uno solo, quello per l’attrice sua amica Amalia Bettini che uscì su un periodico dietro sua approvazione.

1850 – Diventa Presidente dell’Accademia Tiberina. (Roma, Biblioteca Angelica – Consiglio dell’Accademia Tiberina per l’anno 1850. Presidente è il Belli). (Roma, Medagliere Capitolino – Medaglia di bronzo dell’Accademia Tiberina che commemora la presidenza del Belli nell’anno 1850).

1852 – Nasce la prima nipote, Maria Teresa. Gli viene affidato il compito di formulare i giudizi di censura per gli spettacoli teatrali sotto l’aspetto della morale politica, mansione che esercita con reazionario vigore.

1855 – Nasce il nipote Carlo.

1856 – Nasce il nipote Giacomo.

1859 – Dopo una lunga malatia, muore all’età di trentasette anni la nuora Cristina. Altri lutti contribuiranno a intristire la sua vecchiaia già chiusa e ipocondriaca.

1863 – Tra le otto e le nove di sera del 21 dicembre muore improvvisamente per un colpo apoplettico Giuseppe Gioachino Belli. Il 31 dicembre il suo più caro amico; Francesco Spada, ne pubblica il necrologio sull'”Osservatore romano”. Il poeta viene sepolto a Verano.

Sonetti Romani

A Compar Dimenico

Me so ffatto, compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona[1],
co ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche[2], pe ddio, che cce se sguazza.
Si la vedessi cuanno bballa in piazza,
cuanno canta in farzetto, e cquanno sona,
diressi: «Ma de che? mmanco Didona,
che squajjava le perle in de la tazza».
Si ttu cce vôi viení dda bbon fratello
te sce porto cor fedigo[3] e ’r pormone;
ma abbadamo a l’affare de l’uscello.
Perché si ccaso[4] sce vôi fà er bruttone[5],
do dde guanto[6] a ddu’ fronne[7] de cortello
e tte manno a Ppalazzo pe cappone[8].

14 febbraio 1830 – De Peppe er tosto – G.G.B.

A la sora Teta che pijja marito

Coll’occasione, sora Teta mia,
d’arillegramme che ve fate sposa,
drento a un’orecchia v’ho da dí una cosa
pe’ rregalo de pasqua bbefania.
Nun ve fate pijjà la malatia
come sarebbe a dí d’esse gelosa,
pe’ nun fà come Checca la tignosa
che li pormoni s’è sputata via.
Ma si piuttosto ar vostro Longarello
volete fà passà quarche morbino
e vedello accuccià come un agnello;
dateje una zeccata e un zuccherino;
e dorce dorce, e ber bello ber bello,
lo farete ballà sopra un cudrino.

dicembre 1827 – Questo e il seguente sonetto furono da me spediti a Milano al signor Giacomo Moraglia mio amico il 29 dicembre 1827, onde da lui si leggessero per ischerzo nelle nozze del comune amico signor G. Longhi con la signora Teresa Turpini, cognata del Moraglia.

Ar sor Longhi che pijja mojje

Le donne, cocco mio, sò certi ordegni,
certi negozi, certi giucarelli
che si sai maneggialli e sai tienelli,
tanto te cacci da li brutti impegni:
ma si poi, nerbi-grazia, nun t’ingegni,
de levàttele un po’ da li zzarelli,
cerca la strada de li pazzarelli
va’ a fiume, o scegni drento un pozzo scegni.
Sí, pijja mojje, levete er crapiccio
ma te n’accorgerai pe ddio sagranne
quanno che sarà cotto er pajjariccio.
Armanco nun la fà tamanto granne;
e si nun vòi aridurte omo a posticcio,
tiè pe’ tte li carzoni e le mutanne.

dicembre 1827 – G.G.B.

A li sori anconetani

Ma che teste de cazzo bbuggiarone!
Ve strofinate a iddio che facci piove;
e perché san Ciriàco[1] nun ze move,
je scocciate le palle in priscissione:
e ve lagnate poi si una ’lluvione
de du fiumi che stanno in dio sa dove
vienghi a rubbavve sto corno de bbove
bell’e granne com’è, ttosto e ccojjone!
Ma nun è mmejjo d’avé ppiú cquadrini
e ppiú ggrano e ppiú vvino a la campagna,
che mmagnà nnote pe’ cacà stuppini?
E er sor Davìd che imberta e cce se lagna,
quanno sarà dde llà dda li confini,
l’averà da trovà ’n’antra cuccagna!

Pesaro, maggio 1830 – De Peppe er tosto
Nella primavera del 1830 non pioveva, con danno dell’agricoltura. Gli Anconitani, dando opera regia nel nuovo Teatro delle Muse dissero che la Senna e il Tamigi sarebbero fra poco venuti a rapire a quelle scene il tenore Giovanni David, che vi cantava per circa 3000 scudi. Quindi sonetto a li sori anconetani.

A Menicuccio Cianca

Di’ un po’, ccompare, hai ggnente in condizione [1]
la cuggnata de Titta er chiodarolo?
Be’, ssenti glieri si[2] ccorcò[3] a fasciolo[4]
lo sguattero dell’oste der farcone.
Doppo fattasce auffagna[5] colazione
j’annò cor deto a stuzzicà er pirolo:
figurete quer povero fijjolo
si cce se bbuttò addosso a ppecorone.
Ma mmalappena arzato sù er zipario,
ecchete che per dio da un cammerino
viè ffora er bariscello der Vicario.
Mó ha da sposalla; e ppoi pe ccontentino
s’averà da godé ll’affittuario
che jj’ha fatto crompà ll’ovo e ’r purcino[6].

1830 – De Peppetto er tosto

A Pippo de R…

Sentissi, Pippo, er zor abbate Urtica[1]
co cquell’antro freghino de Marchiònne[2]
uno p’er crudo e ll’antro pe le donne
appoggiajje ar zonetto la reprìca?
Ma cchi a ste crape je po ffà la fica,
j’averà dditto, cazzo: «Crielleisònne!
se la vadino a magna bbell’e mmonne,
che nnoi peddìo nun ciabbozzamo mica».
Valla a ccapí: si ffai robba da jjanna,
subbito a sto paese je paremo
quer che je parze a li giudii la manna;
ma si ppoi ggnente ggnente sce volemo
particce come la raggion commanna,
fascemo buscia, Pippo mio, fascemo.

1820 – De Peppe er tosto
All’accademia tiberina la sera de’ …1820 (credo).

Alle mano d’er sor Dimenico Cianca[1]

Lo storto[2], che vva immezzo a la caterba
de quelle bbone lane de fratelli,
che de ggiorno se gratta li zzarelli,
eppoi la sera el culiseo se snerba,
m’ha dditto mo vviscino all’Orfanelli
quarmente in ner passà ppe la Minerba,
ha vvisto li scalini pieni d’erba,
de ggente, de sordati e ggiucarelli;
co l’occasione c’oggi quattro agosto
è la festa d’er zanto bbianco e nnero,
che ffa li libbri, e cchi li legge, arrosto.
Ho ffatto allora: Oh ddio sagranne, è vvero!
Làsseme annà da Menicuccio er tosto,
a bbeve un goccio de quello sincero.

4 agosto 1828 – De Peppe er tosto

Tre sonetti

1° Ar dottor Cafone[1]

Sor cazzaccio cor botto, ariverito,
ve pozzino ammazzà li vormijjoni,
perché annate scoccianno li cojjoni
a cchi ve spassa er zonno e ll’appitito?
Quanno avevio in quer cencio de vestito
diesci asole a rruzzà cco ttre bbottoni,
ve strofinavio a ttutti li portoni:
e mmó, bbuttate ggiú ll’arco de Tito!
Ma er popolo romano nun ze bbolla,
e quanno semo a ddí, ssor panzanella,
se ne frega de voi co la scipolla.
E a Rroma, sor gruggnaccio de guainella,
ve n’appiccicheranno senza colla
sette sacchi, du’ scorzi e ’na ssciuscella[2].

14 febbraio 1830 – De Peppe er tosto

2° Ar sor dottore medemo

Ma vvoi chi ssete co sto fume in testa
che mettete catana[1] ar monno sano?
Sete er Re de Sterlicche er gran Zordano,
l’asso de coppe, er capitan Tempesta?...
Chi sete voi che ffate tanta pesta[2]
co’ cquer zeppaccio de pennaccia in mano?
Chi ssete? er maniscarco, er ciarlatano...
se po ssapello, bbuggiaravve a ffesta?
Vedennove specchiavve a ll’urinale,
le ggente bbone, pe’ nun fà bbaruffa,
ve chiameno er dottore, tal’e cquale:
ma mmó vve lo dich’io, sor cosa-bbuffa,
chi ssete voi (nun ve l’avete a male):
trescento libbre de carnaccia auffa.

16 febbraio 1830 – De Peppe er tosto medemo

3° P’er zor dottore ammroscio cafone

A Menico Cianca

Le nespole[1] c’hai conte a cchillo sciuccio
(pe ddillo[2] a la cafona) de dottore,
me le sò ppasteggiate[3], Menicuccio,
sino a cche m’hanno arifiatato er core.
Vadi a rricurre mo da Don Farcuccio[4]
pe rrippezzà li stracci ar giustacore[5]:
ché a Roma antro che un cavolo cappuccio
pò ppagà ppiù le miffe[6] a st’impostore.
Ma er zor Ammroscio ha ffatto un ber guadaggno
trovanno a ffasse[7] a ccusí bbon mercato
carzoni e ccamisciola de frustaggno[8]:
ché in ner libbro de stampa che mm’hai dato,
be’ cce discessi[9] all’urtimo: Lo Maggno[10];
e, dde parola, te lo sei maggnato.

Roma, 13 ottobre 1831 – De Pepp’er tosto

Ar sor Avocato Pignòli Ferraro

Chi ne sapeva un cazzo, sor Tomasso,
che parlavio todesco in sta maggnera?
E me vorría peddio venne in galera,
si su cquer coso nun parevio l’asso.
Li Marignani che staveno abbasso
cor naso pe l’inzú, fanno moschiera;
perché propio dicessivo jerzéra
certe sfilate che nemmanco er Tasso.
E come er predicà nun fussi gniente
ce partite cor Santo [1] e cor sonetto, [2]
da fà viení a l’invidia un accidente.
Quello però che ve vò fà canizza,
è la gola de quarche abbatinetto
c’averà da restà senza la pizza. [3]

18 agosto 1830 – De Peppe er tosto
Il Gnoli rispose il medesimo giorno con due sonetti in vernacolo ferrarese.