Fu, in ogni caso, nel 1813, tra i fondatori dell’Accademia Tiberina, e ne ebbe un beneficio in punto di prestigio e decoro, cosicché nel 1816 poté unirsi in matrimonio con Maria Conti, ricca vedova, attestandosi peraltro in una condizione di agiatezza che gli consentì di perfezionarsi negli studi, di poter attendere con serenità alla sua attività di verseggiatore; e di viaggiare, inoltre, in lungo e in largo per l’Italia.
Nel 1820 egli compose il primo dei 2279 celebri sonetti dialettali, con i quali -come ebbe a rilevare la critica – “doveva comporre il più bel monumento di poesia satirica”.
La morte della moglie, sopravvenuta nel 1837, fu seguita da dissesti finanziari, che turbarono profondamente il poeta, preoccupato per la sorte del figlio Ciro. In aperto conflitto con la Chiesa, nella quale si impersonava il potere temporale, fu indotto a fare pubblica ammenda delle violente punzecchiature inflitte al governo del Papa. Ciò gli consentì di chiedere e ottenere un impiego governativo, che però lasciò dopo pochi anni “per insofferenza”. Riprese così l’attività di poeta e con la Restaurazione del 1849 ebbe il titolo ambito di “poeta accademico” e la carica di censore teatrale, e in questo ruolo fu osservante e zelante fino alla pedanteria (aveva ad ogni buon conto affidato all’amico mons. Tizzani la sua opera poetica perché la distruggesse, cosa che tuttavia questi per fortuna non fece).
La critica ufficiale ha riconosciuto, nel tempo, che il Belli dialettale non rappresentò affatto una ribellione all’autorità della Chiesa e all’ordinamento sociale dello Stato pontificio: suo intento precipuo era di erigere un monumento alla “plebe di Roma”; ciò che tuttavia fece con un certo distacco; se polemica vi fu nel suo poetare, essa fu in ogni caso rivolta verso certa esteriorità che egli mal sopportava.
Il dialetto romanesco fu l’arma efficace di cui si servì magistralmente per mettere a fuoco (e a nudo) le incongruenze del suo tempo. Se questa risultanza, di certo approssimativa di un’esistenza attiva e al contempo molto riflessiva della persona che del poetare fece – si può affermare – la sua prima natura, ben altre ragioni si potrebbero portare non già in sua difesa – che il Belli non abbisogna certo di difese, tanta è tale è la sua gloria – ma per una maggior comprensione di quella che parve una strana e quasi incongrua personalità, talento indiscusso a parte. In altre parole, se non eccelso (e discusso!) quanto un Monti (che come uomo non potè e non può essere considerato un modello di coerenza) fu certamente uno scontento, un compresso, vuoi dalla vita, che fu costretto a subire quale spirito libero, vuoi per gli “accomodamenti” (ma oggi si direbbe “compromessi”) che fu costretto ad accettare.
Ciò doverosamente premesso, la sua figura si staglia peraltro su di una Roma pedissequa e anonima, e vi troneggia portato a spalle, afflitto tuttavia dalle molte miserie di cui seppe farsi interprete o più spesso testimone non sempre partecipe, né troppo benevolo. Ma era pur sempre, la sua, una voce del popolo.
Servi – è vero – un regime, ma lo fece per vivere; e fu una ricca vedova a trarlo dai suoi guai, ma pure essa trasse vantaggio dalle qualità non “comuni” del suo nuovo” uomo.
Di massima va’ qui sottolineato – sia pure per sfioramento – che nessuno dei fondatori o “supporter” Tiberini fu uomo di poco conto; va detto in verità che i più seppero essere tutti personalità degne di considerazione e rispetto, e che dal loro valore collettivo uscì onorata l’Accademia. E furono – converrà sottolinearlo, perché lo riconobbero i Prelati allora al Governo, degli innovatori necessari non soltanto alla loro comunità e alla Città di Roma, dal momento che seppero proporre nuovi orizzonti ad una più vasta popolazione inerte e sonnolenta. Anche se talvolta procurarono qualche fastidio, la loro buonafede e la lealtà risultarono sempre assolte agli occhi degli osservatori politici, invero assai attenti e alquanto severi.
E questo è un merito che non è mai venuto meno, anche nell’allargamento successivo degli orizzonti.
Nello Corsieri
L’affetto del Belli per l’Istituzione
Più volte e da più parti è stato messo in dubbio che il Belli fosse realmente tra i fondatori della “Tiberina”, in quanto per la sua produzione uscita pressoché integralmente postuma, meno una cinquantina di “cose pulite” grazie all’occultamento e alla preservazione che ne fece provvidenzialmente l’abate Tizzani, suo sicuro amico, cui l’affidò era considerato una sorta di “anticristo”.
Malevolenza bolsa, codesta, perché l’Accademia Tiberina, sorta nei modi e con le motivazioni di cui si fa cenno a più riprese in questo libro, fu voluta precipuamente dal Belli e dal suo fido Jacopo Ferretti, come acclarato anche da rilevazioni “esterne” relativamente recenti, ma in primo luogo come si rileva tra queste stesse righe, da una composizione del poeta medesimo.
E siccome delle cose bisogna anche sapere il perché che nella fattispecie è poi il nocciolo della questione, o meglio, della decisione converrà precisare che i due intesero reagire allo strapotere napoleonico, allora incombente; e lo fecero soprattutto, per affermare il prevalere dei valori cristiani sul materialismo spinto che pareva voler preludere all’introduzione del più vieto ateismo. Insomma, una decisione ed una scelta “guelfiste” contro una tendenza invero ghibellina.
Quale “anticristo”, dunque? Diciamo piuttosto che il Belli, come artista era per la libertà di espressione e contro un sistema allora, in realtà, vessatorio, del potere, che molti degli stessi esecutori malsopportavano, ma non volevano ne potevano impedire. Di qui la sua “compressione” e molti di quei rancori che lo videro in serrata contesa “per il noto caratteraccio” con Giove Stato, per i non pochi fulmini.
Ventenne appena, o giù di lì (poiché fu ingegno precoce) venne già preso in considerazione dai sapienti del tempo per le sue doti di improvvisatore e per la buona preparazione culturale. E, giusta, quella della “Tiberina” fu una sentita esperienza giovanile. Anche quando se ne astenne per certe discordie interne, in realtà mai se ne allontanò sotto l’aspetto affettivo. E quando da lontano insorse, lo fece in opposizione ai mediocri valori di certi nuovi “osannati” che egli sapeva di sovrastare per alcune spanne.
Ma in ogni caso queste note tendono a dimostrare come il Belli abbia amato sempre la “sua” Tiberina. Lo legavano ad essa le speranze degli anni belli, con il loro carico di illusioni (e in questo fu indiscutibilmente romantico, contro ogni affermazione contraria di “classicismo” creativo e stilistico).
Perché il Belli nella sua opera, per rilevante parte, pur nell’acceso pessimismo alla Baudelaire o alla Schopenhauer, seppe essere anche, e sinceramente, moralista, certo con innegabile crudezza realistica.
Ma è il realismo si badi degli anni maturi e pertanto “smaliziati”: quello delle speranze deluse, irrimediabilmente andate.
Sentite un po’ ora come egli vanta la creazione dell’istituzione, portandola come fatto memorabile:
“Presso in quell’anno in cui dello straniero Trono e consigli il ciel volle distrutti Molti da patrio amor fummo condutti A fondar questo sodalizio altero”.
Ma anche un Belli, fatto maturo e dal piglio scettico e amaro, sopraffatto dalla monotonia del vivere e da non poche delusioni intime, ritrova una vena di buonumore laddove ricorda, come in uno scorcio di sole, l’estro degli anni migliori.
Così, nella tornata del’Accademia liberina del 17 maggio 1860 (a tre anni dalla sua scomparsa)
Egli professa, in un’estemporanea declamazione, la sua antica passione per l’amato sodalizio.
È un Belli si noti autocritico e scherzoso con se stesso:
“Trascorso è un mezzo secolo oggimai Dacché fondata fu la Tiberina, E il so, perché con altri io la fondai, come sta scritto in carta pirgamina. Ebben. d’allor non ho taciuto mai, Ma sempre pronto con la mia cartina, A un cenno che mi faccia il Presidente Sorgo e principio a stomacar la gente. Or da quando la mia squarquoia Prese a cacciarmi i versi dai polmoni, Ho ammazzato fin qui di pura noia Possiam dir quasi due generazioni”.
Giuseppe Gioacchino Belli Nasce a Roma il 7 settembre 1791 Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo figlio di Gaudenzio Belli e Luigia Mazio. La famiglia di lontana origine marchigiana emigra a Roma nel XVII sec. Il nonno del poeta computista in casa Rospigliosi, avvia una generazione impiegatizia alla quale non si sottrae il poeta.
1792 Nasce il fratello Carlo.
1800 La famiglia si trasferisce a Civitavecchia.
1801 Nasce la sorella Flaminia.
1802 Una epidemia di Colera colpisce Civitavecchia. Il padre Gaudenzio viene contaggiato, muore il 25 marzo. La famiglia Belli torna a Roma, la madre aspetta il quarto figlio Antonio che morir? poco dopo la nascita.
1803 La famiglia Belli si stabilisce nell’umile casa di via del Corso 391, vivendo poveramente. La madre si sposa con Michele Mitterpoch. Belli conosce Francesco Spada con il quale stringe un’amicizia che durer? fino alla morte del poeta.
1805 Inizia la sua attivit? poetica. Tra il 1805 ed il 1816, anno d’inizio della produzione dialettale, il Belli realizza 106 poesie in lingua italiana.
1807 Muore la madre. Il poeta interrompe gli studi ed inizia a lavorare dapprima presso casa Rospigliosi e poi presso la computisteria degli spogli ecclesiastici. Muore il fratello Carlo.
1810 Roma viene annessa all’impero francese (1809). Il poeta perde l’impiego.
1811 Trova lavoro come segretario presso il principe Stanislao Poniatowsky. Entra nell’accademia degli Elleni.
1813 A seguito di contrasti lascia l’impiego presso la casa del principe polacco. Si guadagna da vivere come copista e dando lezioni private di Italiano, geografia ed aritmetica. L’accademia Ellenica si scinde dando vita all’accademia Tiberina il cui scopo ? quello di promuovere studi storici su Roma. Il Belli insieme all’amico Spada aderisce a quest’ultima.
1814 Viene stampata la prima lirica del Belli.
1816 Sposa Maria Conti di 13 anni pi? anziana. Il matrimonio porta una discreta agiatezza economica che permette al Belli di dedicarsi con tranquillit? all’attivit? poetica. Trova impiego presso l’ufficio del Bollo e Registro.
1817 Inizia la produzione poetica dialettale componendo una epistola in ottave dedicata alla madre dell’amico Francesco Spada. Nasce la primogenita Felice Luisa, morir? due anni dopo.
1818 Pubblica 35 ottave per il Cardinale Alessandro Lante. La produzione in lingua ? ancora prevalente rispetto a quella dialettale.
1824 Nasce il figlio Ciro.
1827 Primo viaggio a Milano. Conosce le poesie di Carlo Porta. La sorella Flaminia viene ordinata suora nell’ordine delle Perpetue Adoratrici della Santissima Eucarestia.
1828 Lascia l’impiego. Si dimette dall’accademia Tiberina. Secondo viaggio a Milano.
1829 Terzo viaggio a Milano
1831 La produzione poetica dialettale diventa prevalente. Compone solo due poesie in lingua contro i 216 sonetti romaneschi.
1832 Compone una poesia in lingua contro i 391 sonetti romaneschi.
1836 La produzione dialettale scende ad 86 sonetti contro 17 poesie in lingua.
1837 Mentre si trova a Perugia, presso il figlio Ciro li stabilitosi per motivi di studio, apprende la notizia delle pessime condizioni di salute delle moglie. In tutta fretta torna a Roma ma non riesce a vederla viva.
1838 Rientra all’accademia Tiberina.
1839 Pubblica un volume di poesie in lingua. Consegna all’amico Tizzani i manoscritti di duemila sonetti dialettali.
1840 Diventa segretario dell’accademia Tiberina.
1841 L’amico Tizzani gli restituisce i manoscritti. Riottiene un impiego pubblico. Riprende la produzione dialettale. Muore a Torino la sorella Flaminia.
1845 Chiede ed ottiene il pensionamento per motivi di salute.
1847 Interrompe la produzione dialettale.
1849 Il figlio Ciro si sposa con Cristina Ferretti. Compone l’ultimo sonetto dialettale Sora Crestina mia, dedicato alla nuora. In un postilla testamentaria il Belli raccomanda al figlio di distruggere dopo la morte tutta la produzione dialettale.
1850 Diventa presidente dell’Accademia Tiberina.
1852 Gli viene affidato il compito di formulare i giudizi di censura per gli spettacoli teatrali sotto l’aspetto della morale politica.
1856 Pubblica gli Inni ecclesistici secondo l’ordine del Breviario romano.
1859 Muore all’et? di trentasette anni la nuora Cristina.
1863 Tra le otto e le nove di sera del 21 dicembre muore improvvisamente Giuseppe Gioachino Belli. Viene tumulato al Verano
Sonetti romani
A Compar Dimenico
4 Me s? ffatto, compare, una regazza Bianca e rrosscia, chiapputa e bbadialona, Co 'na faccia de matta bbuggiarona, E ddu' bbrocche, pe ddio, che cce se sguazza. 8 Si la vedessi cuanno bballa in piazza, Cuanno canta in farzetto, e cquanno sona, Diressi: Ma de che? mmanco Didona, Che squajjava le perle in de la tazza. 11 Si ttu cce v?i vieni dda bbon fratello, Te sce porto cor fedigo e 'r pormone; Ma abbadamo a l'affare de l'uscello. 14 Perch? si ccaso sce v?i f? er bruttone, Do dde guanto a ddu' fronne de cortello E tte manno a Ppalazzo pe ccappone.
1830 De Peppe er tosto
G.G.B.
A la sora Teta che pijja marito
4 Coll'occasione, sora Teta mia, D'arillegramme che vve fate sposa, Drento a un'orecchia v'ho da d? una cosa Pe rregalo de Pasqua Bbefania. 8 Nun ve fate pijj? la mmalatia Come sarebbe a d? d'?sse ggelosa, Pe nun f? come Cchecca la tiggnosa Che li pormoni s'? sputata via. 11 Ma ssi ppiuttosto ar vostro Longarello Volete f? ppass? cquarche mmorbino E vvedello accucci? ccome un aggnello; 14 Dateje una zeccata e un zuccherino: E ddorce dorce, e bber bello bber bello, Lo farete bball? ssopra un cudrino.
A mmenicuccio Scianca
4 Ma cche tteste de cazzo bbuggiarone! Ve strofinate a iddio che ffacci piove; E pperch? ssan Ciri?co nun ze move, Je scocciate le palle in priscissione: 8 E vve laggnate poi si una 'lluvione De du' fiumi che stanno in dio sa ddove Vienghi a rubbavve sto corno de bbove Bell'e granne com'?, ttosto e ccojjone! 11 Ma nun ? mmejjo d'av? ppi? cquadrini E ppi? ggrano e ppi? vvino a la campaggna, Che mmaggn? nnote pe ccac? stuppini? 14 E er zor David che imberta e cce se laggna, Quanno sar? dde ll? dda li confini, L'aver? da trov? 'n'antra cuccaggna!
Pesaro, maggio 1830 De Peppe er tosto
A li sori anconetani
4 Di' un po', ccompare, hai ggnente in condizzione La cuggnata de Titta er chiodarolo? Be', ssenti glieri si ccorc? a ffasciolo Lo sguattero dell'Oste der Farcone. 8 Doppo fattasce auffaggna colazzione J'ann? cor deto a stuzzic? er pirolo: Figurete quer povero fijjolo Si cce se bbutt? addosso a ppecorone. 11 Ma mmalappena arzato s? er zipario, Ecchete che per dio da un cammerino Vi? ffora er bariscello der Vicario. 14 M? ha da sposalla; e ppoi pe ccontentino S'aver? da god? ll'affittuario Che jj'ha ffatto cromp? ll'ovo e 'r purcino.
A Pippo De R?
4 Sentissi, Pippo, er zor abbate Urtica Co cquell'antro freghino de Marchi?nne Uno p'er crudo e ll'antro pe le donne Appoggiajje ar zonetto la repr?ca? 8 Ma cchi a ste crape je p? ff? la fica, J'aver? dditto, cazzo: Crielleis?nne! Se le vadino a mmaggna bbell'e mmonne, Ch? nnoi pedd?o nun ciabbozzamo mica. 11 Valla a ccap?: si ffai robba da jjanna, Subbito a sto paese je paremo Quer che je parze a li Ggiudii la manna; 14 Ma si ppoi ggnente ggnente sce volemo Particce come la raggion commanna, Fascemo bbuscia, Pippo mio, fascemo.
Alle mano d’er sor Dimenicio Cianca
4 Lo storto, che vva immezzo a la caterba De quelle bbone lane de fratelli, Che de ggiorno se gratta li zzarelli, Eppoi la sera el culiseo se snerba, 8 M'ha dditto mo vviscino all'Orfanelli Quarmente in ner pass? ppe la Minerba, Ha vvisto li scalini pieni d'erba, De ggente, de sordati e ggiucarelli; 11 Co l'occasione c'oggi quattro agosto ? la festa d'er zanto bbianco e nnero, Che ffa li libbri e cchi li legge, arrosto. 14 Ho ffatto allora: Oh ddio sagranne, ? vvero! L?sseme ann? da Menicuccio er tosto, A bbeve un goccio de quello sincero.
Ar dottor Cafone I
4 Sor cazzaccio cor botto, ariverito, Ve p?zzino ammazz? li vormijjoni, Perch? annate scoccianno li cojjoni A cchi vve spassa er zonno e ll'appitito? 8 Quanno avevio in quer cencio de vestito Diesci asole a rruzz? cco ttre bbottoni, Ve strofinavio a ttutti li portoni: E mm?, bbuttate ggi? ll'arco de Tito! 11 Ma er popolo romano nun ze bbolla, E quanno semo a dd?, ssor panzanella, Se ne frega de voi co la scipolla. 14 E a Rroma, sor gruggnaccio de guainella, Ve n'appiccicheranno senza colla Sette sacchi, du' sc?rzi e 'na ssciuscella.
Ar sor dottore medemo II
4 Ma vvoi chi ssete co sto fume in testa Che mettete catana ar monno sano? Sete er Re de Sterlicche, er gran Zordano, L'asso de coppe, er capitan Tempesta?? 8 Chi ssete voi che ffate tanta pesta Co cquer zeppaccio de pennaccia in mano? Chi ssete? er maniscarco, er ciarlatano... Se p? ssapello, bbuggiaravve a ffesta? 11 Vedennove specchiavve a ll'urinale, Le ggente bbone, pe nun f? bbaruffa, Ve chiameno er dottore, tal e cquale: 14 Ma mm? vve lo dich'io, sor cosa-bbuffa, Chi ssete voi (nun ve l'avete a male): Trescento libbre de carnaccia auffa.
Ar sor Longhi che pijja mojje
4 Le donne, cocco mio, s? ccerti ordeggni, Certi negozzi, certi ggiucarelli, Che si ssai maneggialli e ssai tienelli, Tanto te cacci da li bbrutti impeggni. 8 Ma ssi ppoi, nerbi-grazzia, nun t'ingeggni, De lev?ttele un po' da li zzarelli, Cerca la strada de li pazzarelli, Va a ffiume, o ssc?ggni drento un pozzo, ssc?ggni. 11 S?, ppijja mojje, levete er crapiccio. Ma te n'accorgerai pe ddio sagranne Quanno che ssar? cotto er pajjariccio. 14 Armanco nun la f? ttamanto granne; E ssi nun v?i aridurte omo a pposticcio, Ti? pe tt? li carzoni e le mutanne.
Ar zor avocato piggn?li ferraro. II
4 Chi ne sapeva un cazzo, sor Tomasso, Che parlavio todesco in sta maggnera? E me vorr?a peddio venne in galera, Si ssu cquer coso nun parevio l'asso. 8 Li Mariggnani che staveno abbasso Cor naso pe l'inz?, fanno moschiera; Perch? propio discessivo jerzera Certe sfilate che nemmanco er Tasso. 11 E ccome er predic? nun fussi ggnente, Ce partite cor Zanto e cor zonetto, Da f? vvien? a l'invidia un accidente. 14 Quello per? che vve v? ff? ccanizza, ? la gola de quarche abbatinetto C'aver? da rest? ssenza la pizza.
Ar zor Carlo X
4 Bravo Carluccio! je l'hai fatta ggiusta Pe bbatte er culo e addivent? ccerasa. Tosto m?! aspetta la bburiana a ccasa Cor general Marmotta de Ragusta. 8 Ah?! cch'ed?, Ccarluccio? nun te gusta De port? a Ggiggio la chirica rasa? Drento a le bbraghe te ne fai 'na spasa? Spada, caroggna! e nn? speroni e ffrusta. 11 Cor d? de bbarba all'emme, ar zeta e all'acca, Hai trovo er busse, e sti quattro inferlicchese Che tt'hanno aruvinato la bbaracca. 14 Chi ar monno troppo v?, nnun pijja nicchese; E ttu, ppe llavor? a la puliggnacca, Hai perzo er trono, e tt'? rrimasto? un icchese.
Campa, e llassa camp?
4 Ma cche Ffaj?la, Cristo, ? ddiventata Sta Roma porca, Iddio me lo perdoni! Forche, che state a ff?, ffurmini, troni, Che nun sscenn?te a ffanne una panzata? 8 S'ha da vede, per dio, la bbuggiarata Ch'er cristiano ha d'ann? ssenza carzoni, Manco si cquelli poveri cojjoni Nun fussino de carne bbattezzata! 11 Stassi a sto fusto a ccommann? le feste, Vor?a bbe' mmaneggi? li ggiucarelli D'arimette er ciarvello in de le teste. 14 E cchiamerebbe bbonziggnor Maggnelli, Pe ddijje du' parole leste leste: Sor ?, ffamo camp? li poverelli.
Contro er barbieretto de li gipponari
4 Quer zor chicchera ll? ccor piommacciolo Va strommettanno pe Ccampo de Fiore Che ll'asole che ttiengo ar giustacore Titta er zartore nun l'ha uperte a ssolo. 8 Je pijja 'na saetta a ffarajolo, Je vienghino tre ccancheri in ner core! L'aver? ffatte lui cor zu' rasore, Facciaccia de sciovetta in zur mazzolo! 11 ... 'Ggia san Mucchione! ancora nun ? nnato Chi mme p?zzi f? a mm?ne er muso bbrutto Senza risico d'?ssesce ammazzato. 14 Ma ttanto ha da fin? che sto frabbutto, Sto fiaccio de cane arinegato S'ha da cav? la sete cor presciutto.
Contro li giacobbini
4 Nun te pijj? ggatti a ppel?, Ggiuanni; Chi impiccia la matassa se la sbrojji: Stattene a ccasa co li tu' malanni, Ch? er monno tanto va, vvojji o nun vojji. 8 Io nun vorr?a st? un cazzo in de li panni De sti sfrabbica Rome e Ccampidojji; Ch? er m?ttese a ccozz? ccontro li bbanni ? un mare-maggna tutto pien de scojji. 11 Sai quanto ? mmejjo maggn? ppane e sputo, Che sp?ne a rrepentajjo er gargar?zzo Pe ff? strozzate de bbaron fottuto? 14 Tu llassa ann? a l'ingi? ll'acqua in ner pozzo; E hai da d? che Iddio t'ha bben vorzuto Com'e cquarmente t'arimedia er tozzo.
Er civico
4 M?ah Menicuccio, quanno vedi coso... Nino er pittore a la Madon de Monti, Dijje che ccaso mai passa li ponti... E ddamme retta; quanto sei feccioso! 8 Dijje... ah?! Menicuccio, me la sconti: Ma pperch? mme sce fai lo stommicoso? M'avanzi quarche ccazzo sbrodoloso? Bravo! ari?ca: come semo tonti! 11 Cosa te vo' ggiuc?, pe ddio de leggno, Che ssi tte trovo indove s? de guardia, Te do l'arma in der culo e tte lo sfreggno? 14 Dijje pe vv?ede che sto ppropio a Ardia, Che vor?a venne un quadro de diseggno Che cc'? la morte de Maria Stuardia.
Er gioco der lotto
4 M'? pparzo all'arba de ved? in inz?ggno, Cor boccino in ner collo appiccicato, Quello che glieri a Pponte hanno acconciato Co 'no spicchio d'ajjetto in zur cotoggno. 8 Me disceva: ?Ti?, Ppeppe, si hai bbisoggno;? (E ttratanto quer bravo ggiustizziato Me bbuttava du' nocchie in zur costato): ?S? ppoche, Peppe mio, me ne vergoggno.? 11 Io dunque sci? ppijjato oggi addrittura Trentanove impiccato o cquajjottina, Dua der conto, e nnovanta la pavura. 14 E cco la cosa che nnemmanco un zero Ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina, Ho arimediato cor pijj? nnocchiero.
Er guitto in ner carnovale
4 Che sserve che nun piovi, e cche la neve Nun vienghi a infarin? ppi? le campaggne? Tanto 'ggnisempre a casa mia se piaggne, Tanto se sta a stecchetta e nun ze bbeve. 8 Er zor paino, er zor abbate, er greve, In sti giorni che cqui sfodera e sfraggne: Antro pedd?o che a ste saccocce caggne Nun ce n'? n? dda d? nn? da risceve! 11 Ma ssi arrivo a llev? lo stelocanna, Madonna! le pellicce hanno da ?sse Da misurasse co la mezza canna! 14 Allora vedi da ste ggente fesse, Co ttutta la su' bboria che li scanna, Le scappellate pe vvien? in calesse!
Er pennacchio
4 Ah Menicuccio mia, propio quer giorno, La viggijja de Pasqua Bbefania, Quella caroggna guercia de Luscia, Lo crederessi?, me mettette un corno. 8 Porca fottuta! e me vieniva intorno A ff? la gatta morta all'osteria Pe rremp? er gozzo a la bbarbaccia mia, 'Ggni sempre come la paggnotta ar forno. 11 E intratanto co mmastro Zozzovijja Me lavorava quele du' magaggne D'aruvin? un fijjaccio de famijja. 14 Ecco, pe ccristo, come s? ste caggne: Amore? 'n accidente che jje pijja: Tutte tajj?le pe ppoi f?tte piaggne.
Er Pijjamento d’Argeri
4 Quante sfrisielle a ttajjo e scappellotti! Quante chicchere a ccoppia e sventoloni! Quant'acciacco de chiappe e dde cojjoni Quant'infirze de schialli e dde cazzotti! 8 Poveri Turchi, come s? aridotti Co cquell'arifilate de gropponi! Beato chi pp? av? ttra li carzoni Un fiasco d'ojjo e un bon caval che ttrotti! 11 Nun c'? da d?, ppe ssant'Antonio abbate: Li Francesi s? ggente che, Mmadonna!, S? bboni pe l'inverno e ppe l'istate. 14 E mmo mmetteno in cima a 'na colonna Er Deo d'Arg?ri, che vva a ffasse frate, O vvi? a vvenne le pizze a la Ritonna.
Er romito
4 ?Quanno te lo dich'io c?chete er core? Me disceva jer l'antro un bon romito; ?In sto monnaccio iniquo e ppeccatore, Nun ze trova pi? un parmo de pulito. 8 Co ttre sguartrine io fascevo l'amore E je servivo a ttutte de marito; E ppe un oste, uno sbirro e un decrotore Ste porche tutt'e ttre mm'hanno tradito. 11 Ma io pe ff? vved? cche mme ne caco, Tutte le sere vado all'osteria, E ffo le passatelle, e mm'imbriaco. 14 E ssi la tentazzione m'arip?a, Me lo cuscio pe ddio cor filo e ll'aco Quant'? vvero la Vergine Mmaria.?
Lustrissimi: co’ questo mormoriale
4 Lustrissimi: co' questo mormoriale V'addimanno benigna perdonanza Se gni fiasco de vino, igni pietanza Non fussi stata robba pella quale. 8 Sibb? che pe nun essece abbonnanza Come ce n'? pi? mejjo er carnovale O de pajja o de fieno, o bene o male Tanto c'? stato da remp? la panza. 11 Ma gi? ve sento a d?: Fior d'ogni pianta, Pe la salita annamo e pe la scenta, Famo li sordi e 'r berzitello canta. 14 Mo sentiteme a me: Fiore de menta, De pacienza co' voi ce ne v? tanta E buggiar? pe bbio chi ve contenta.
Nunziata e’r caporale; o Cont?ntete de l’onesto
4 Titta, lasseme ann?: che!, nun te bbasta De scol? er nerbo scincue vorte e mmezza? V?' un bascio? ti?llo: v?i 'n'antra carezza?... Ah?! da capo cor tastamme! oh ttasta. 8 Ma tte stai fermo? Mica s? dde pasta, Che mme smaneggi: mica s? mmonnezza. Me farai divent? 'na pera-mezza! Eppuro te n'ho ddata una catasta! 11 E pper un giulio tutto sto strapazzo? Ma si mme vedi ppi? pe Ppiazza Sora? Oh vvia, famme crop?, cc'ho ffreddo, cazzo! 14 Manco male! Oh mm? ppaga. Uh, ancora tremo! Addio: lasseme ann? a le cuarantora, E oggi, si Ddio v?, cciarivedemo.
Peppe er pollarolo ar sor Dimenico Cianca
4 Piano, sor ?, come sarebbe a ddine Sta chiacchierata d'er Cast?r dell'Ova? Sarebbe ggnente mai pe ff? 'na prova S'avemo vojja de cromp? ggalline? 8 S?! ? ppropio tempo mo cuesto che cquine D'annasse a cciafrujj? mmarcanzia nova! Manco a bbutt? la vecchia nun ze trova! Ma cchi ccommanna n'ha da vede er fine. 11 Duncue, sor coso, fateve capasce Che a Rroma pe sto ggiro nun ? lloco Da f? bboni negozzi; e annate in pasce. 14 E ssi in quer libbro che vv'ha scritto er Coco Lui sce p? dd? cquer che je pare e ppiasce, Io dico a vvoi che ciaccennete er foco.
P’er sor dottore Ammroscio cafone III – A Menico Cianca
4 Le nespole c'hai conte a cchillo sciuccio (Pe ddillo a la cafona) de dottore, Me le s? ppasteggiate, Menicuccio, Sino a cche m'hanno arifiatato er core. 8 Vadi a rricurre mo da Don Farcuccio Pe rrippezz? li stracci ar giustacore: Ch? a Rroma antro che un cavolo cappuccio P? ppag? ppi? le miffe a st'impostore. 11 Ma er zor Ammroscio ha ffatto un ber guadaggno Trovanno a ffasse a ccus? bbon mercato Carzoni e ccamisciola de frustaggno: 14 Ch? in ner libbro de stampa che mm'hai dato, Be' cce discessi all'urtimo: Lo Maggno; E, dde parola, te lo sei maggnato.