Compositore (Pesaro, 1792 — Passy, Parigi, 1868).
Rossini può essere definito figlio d’arte per antonomasia, in quanto il padre era maestro di tromba e di corno, e la madre, Anna Guidarini, un discreto soprano di secondo ruolo, ma pur sempre artista.
Dal padre Gioacchino apprese i segni e il linguaggio della notazione musicale. Seguendo i genitori nel nomadismo artistico per via del loro andare di teatro in teatro, di paese in paese, il bambino, che già mostrava un’accentuata inclinazione artistico-musicale, ebbe una formazione eclettica e movimentata.
Iniziò così lo studio delle lettere e della musica dapprima a Bologna; passò quindi a Lugo di Romagna, dove studiò per tre anni col canonico G. Malerbi, e tornò poi a Bologna, dove Angelo Tesei lo addestrò nel solfeggio, nel canto (aveva una bella voce, che si fece poi baritonale) e nel clavicembalo.
Il giovanissimo Rossini, che già si distingue, esordisce presto come virtuoso del canto nelle chiese; quale violinista, e “maestro al cembalo” in teatro.
Nel 1806 s’iscrive al Liceo musicale e frequenta la scuola di violoncello, poi quella di contrappunto di padre Mattei, e si vede subito che questo giovane versatile è destinato a fare strada. Ed eccolo infatti, a diciotto anni, calcare le scene con una serie incalzante di opere. Stralciamo, dai repertori storico-teatrali le più note.
Eccole: “La scala di seta”; “Il signor Bruschino”; “Tancredi”; “L’Italiana in Algeri”; “Il turco in Italia”. “Il barbiere di Siviglia” segna l’apogeo dei suoi reiterati trionfi, ma verranno pure “Cenerentola”, “La gazza ladra”; “Semiramide” e altre ancora; nonché numerose cantate e opere sacre.
E si susseguono, dopo i soggiorni per la Penisola, quelli di Vienna, Londra e, infine, Parigi, in una sorta di apoteosi, dove il maestro rivede il “Mosè” e l”’Assedio di Corinto”.
Tra le sue ultime opere teatrali spicca, il “Guglielmo Telì” che fu acclamatissimo. Poi, a soli 37 anni, la pesante coltre del silenzio, sul quale si fecero (e si fanno) le più disparate congetture.
Ma il cigno di Pesaro non chiuse con questo il suo magico libro. Aveva seminato e raccolto onori e ricchezze; era in quegli anni l’uomo più celebre, in assoluto, d’Europa.
Volle conoscere e mostrò di apprezzare i talenti dell’epoca che incalzava (e qualcuno di essi “protesse”: Bellini, Mendellsson, Wagner, Berlioz).
Le vicende successive della sua vita lo spinsero di nuovo a Parigi, dopo un pacifico soggiorno bolognese; e a Parigi concluse, in un’aura di serenità, la sua esistenza.
Musicalmente, con la sua ricchissima strumentazione (era, come s’è visto, buon conoscitore degli strumenti che impiegava) fu innovatore. E per vocalità e melodia, nelle sue opere “pensose” egli anticipò Verdi.
Ma l’intuizione musicale rossiniana è contrassegnata dal fuoco del ritmo. Fu, in sostanza, un formidabile improvvisatore che pressoché mai deluse per avere mancato lo scopo. In arte fu senz’altro un genio felice.